Chi passeggia per Testaccio, lo storico quartiere romano sulle rive del Tevere, non sa cosa celi il terreno sotto i suoi piedi. L’origine di questa collina è, infatti, molto poco naturale. Pare, infatti, che sia nata come deposito dei cocci delle tante anfore di vino che venivano scartate dall’Emporium che all’epoca sorgeva nelle vicinanze. Questo aneddoto rende bene l’idea di quanto i romani amassero il vino. Del resto, nell’immaginario di tutti noi i ricchi patrizi oziano sul loro comodo triclinio con un’immancabile coppa di vino tra le dita. Ripercorriamo quindi un po’ di Storia del vino in epoca romana.
Il vino in epoca romana: un po’ di Storia
L’amore degli antichi romani per il vino non deve sorprendere. La cultura enologica era già molto sviluppata nella penisola italica quando la Città Eterna nacque e si sviluppò. Gli Etruschi infatti, presenti già dal IX secolo nel centro-Italia, erano grandi viticultori. Lo Stivale, in quell’epoca, acquisì il nome di “Enotria” proprio in omaggio alla sua rigogliosa produzione enologica.
Catone il Censore, il primo agronomo
Il famoso generale Marco Porcio Catone (234-149 a.c.), figlio di viticultori tuscolani, è da molti considerato il primo agronomo della storia. Nel suo “De agri cultura”, un esteso trattato sulle pratiche agricole di quei tempi, identifica l’arte della produzione del vino come la prima e più importante d’Italia. Tra le regioni, quelle in cui la produzione si concentrò maggiormente furono la Campania, il Lazio e la Sicilia. Un vino prodotto in Campania (molto diffuso ancora oggi), in particolare, conquistò tavole e banchetti di tutto l’impero. Si tratta del Vinum Falernum, amato e citato spesso da Plinio il Vecchio. Sempre dalla Campania, in età tardo imperiale, provenivano il Setiae, il Gauranum e il Trebellicum.
Una procedura definita nei minimi dettagli
Coltivazione, conservazione e trasporto del vino avevano nell’antica Roma, già dal periodo repubblicano, un codice così stringente da non aver nulla da invidiare alle cantine rinomate attuali. Era definita l’altezza dal mare, la distanza migliore tra i filari e l’intelaiatura a intreccio di canne. Quanto alla conservazione, esistevano anfore

I tipici Dolia per la fermentazione del mosto
apposite dalla singolare forma rotonda, i dolia, che venivano interrate nel suolo per mantenere temperatura e umidità.
Data la disomogeneità sia della qualità che della gradazione alcolica del prodotto, i romani applicavano una serie di escamotage per modificare gusto, aspetto e alcolicità dei loro vini. Era molto comune, ad esempio, “correggerli” con miele e spezie, o allungarlo con acqua qualora fosse troppo corposo. Qualità diverse venivano mischiate per omogeneizzare il risultato finale, almeno per quanto riguarda le produzioni di qualità inferiori.
Il Purpureum e l’Aureum
Nell’Urbe amavano allo stesso modo vini bianchi e rossi, che facevano venire dai quattro capi del mondo allora conosciuto, a seconda dei periodi storici e delle produzioni regionali. Il vino rosso veniva chiamato Purpureum mentre quello bianco era detto Aureum. A differenza di quanto si possa immaginare, pensando a racconti e leggende riguardanti i Baccanali (festività dedicate al Dio del Vino Bacco), a Roma il vino non aveva quello stretto legame con il divino e la ritualità che ne aveva contraddistinto la storia in età greca.
Il ruolo di Marco Aurelio Probo
La stessa viticoltura moderna, per come è oggi organizzata, è diretta discendente dei costumi romani tardo-imperiali. Fu Marco Aurelio Probo infatti, imperatore tra il 276 e il 282 dopo Cristo, a trasformare molte delle province imperiali in altrettanti chateaux, ognuno con le sue peculiarità e la sua produzione. Quelli che un tempo erano gloriosi legionari di guerra vennero trasformati in vignaioli e inviati nelle regioni che ancora oggi conservano grandi tradizioni viticole, come la Gallia, la Pannonia o la Dalmazia.
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